Riguardavo il cielo d’Islanda e cercavo di capire cosa lo rendesse così profondo: le nuvole sanno essere corpose, quasi pastose, mentre altre volte sono discrete nelle forme e nei colori quasi non volessero togliere la scena a quello che puoi almeno provare a raggiungere.
Tutto sembrava silenzio.
Eppure ricordo il sibilare del vento che non capivo se bisbigliava intorno o solo nei miei timpani e ricordo anche persone che parlavano, ma che io non sentivo anche se le loro voci non erano fuori dalla mia portata o contro vento.
Dicono che lo stato meditativo sia pura presenza e che una volta raggiunto lo si riconosca. Per me, che sul retro degli occhi ho un flusso interminabile di parole, quello stato pare più utopico di una giornata di neve ad agosto, eppure in quel luogo tutto taceva (forse proprio grazie al nevischio di agosto fronte ghiacciaio).
Se pensi che il silenzio sia assenza di suono in ogni sua forma, allora solo la tua impossibilità di sentire ti consentirà di conoscerlo. Magari, invece, il silenzio è solo una tua condizione, il tuo restare affacciato al davanzale dei tuo sensi per percepire ciò che ti circonda: il silenzio c’è quando quel che vedi è nitido senza essere abbagliante, quel che senti è limpido senza essere banale; è quell’istante in cui getti a mare parole, difese e attenzione per gli altri e quel che c’è intorno ti invade.
E’ così che scopri silenzi sibilanti di vento e altri di acqua impetuosa, silenzi sfumati nei bianchi, altri in azzurri o persino di neri. Non importa che tu sia in gregge oppure un solitario, conta solo la tua disponibilità a restare sospeso: tu sei l’essenza del tuo silenzio.
O, forse, il silenzio è l’istante in cui il viaggio ti si imprime addosso e lascia il suo segno, altrimenti ne rientreresti senza ricordi reali, ma solo con immagini di parole che rigiravano nella testa e ti portavano via dal luogo in cui eri.
Laura Alice&ilGatto Antoniolli